« Il male che ci tormenta non è nel luogo dove ci troviamo ma è in noi stessi. Siamo senza forze per sopportare una qualsiasi contrarietà, incapaci di tollerare il dolore, impotenti di gioire di cose piacevoli, sempre scontenti di noi stessi». Questo ci tramanda Seneca nel suo De tranquillitate animi intorno al 50 d.c., una descrizione per niente diversa dal racconto di un sofferente di adesso. E’ nell’ interazione costante tra predisposizione naturale ed esperienza che si costituiscono le caratteristiche emozionali di ognuno, ossia quello che comunemente chiamiamo “sensibilità”. La ricerca più avanzata conferma quello che la sapienza più antica sosteneva a proposito delle emozioni umane: nulla esiste di fisiologico che non sia anche psicologico e viceversa; nessun fenomeno è puramente psicologico in quanto produce inevitabilmente alterazioni biologiche (G.Nardone 2019) Così ad alcune persone “sensibili” capita di vivere una delusione (personale, professionale, sentimentale, ecc.) che segna una frattura tra il prima e il dopo l’evento inaspettato, qualcosa che rompe la certezza rigida e spesso inconsapevole di non essere più quello che si pensava di essere. Inizia così un disfunzionale processo di rilettura in negativo a ritroso: tutte quelle che prima erano state semplici difficoltà, ora vengono rilette come fallimenti, testimonianze di incapacità che in una sorta di trend negativo si susseguono senza fine, diventando prova dell’incapacità di autocorreggersi. Tutto avviene in un laconico dialogo tra sé e sé che non lascia scampo alla sentenza finale: «Non sono quello che pensavo di essere». Le valutazioni inappellabili sono purtroppo sempre date in base ad azioni concrete avvenute. Un perfezionista inconsapevole di correre su un filo troppo alto che quando è caduto non aveva una rete abbastanza elastica da fornirgli un rimbalzo sufficiente per ricominciare a camminare sulla corda della vita. Non ha perso la vita, peggio, ha perso la fiducia in se stesso. L’agognato oblio è impossibile e il peso del passato aumenta punteggiato di ricordi negativi senza concedere nulla a quelli positivi, piacevoli o semplicemente cari. Il presente viene percepito come immodificabile, il futuro come impossibile. Ogni sconfitta reale o presunta vale il doppio, ogni successo non testimonia capacità: era dovuto. In altre parole, dove non c’è vittoria, c’è rinuncia. La rinuncia generalizzata che con virulenza attacca la quotidianità, sigilla la condizione di ostaggio di se stessi divenendo vittime di sé. Così l’illuso deluso di sé scopre di essere portatore di un’onnipotente credenza – e questo è il rischio – “se voglio posso”, un peccato di superbia, direbbe Dante che ai superbi riservava l’Inferno e il Purgatorio. Eccessiva autostima che occulta le proprie debolezze, direbbero i monaci Zen. Invalidante esito depressivo diciamo noi clinici. In un miscuglio di paura di non riuscire e di dolore per la constatazione nefasta giornaliera, il rinunciare mantiene spesso un meccanismo depressivo ingravescente. Ma il dolore rappresenta per la nostra mente ciò che la febbre è per il nostro corpo, ci aiuta a guarire; ma se la paura e il dolore – emozioni di base che tutti percepiamo e scattano indipendentemente dalla nostra coscienza- superano una certa soglia, possono condurre ad un punto di non ritorno e necessitano di un aiuto specialistico.
Libri consigliati: G.Nardone “Le emozioni, istruzioni per l’uso” 2020; A.Bartoletti “Pensieri brutti e cattivi” 2019; G.Nardone “Cavalcare la propria tigre”2003; L.Ariosto “Orlando Furioso” 1526. E.Muriana, T.Verbitz ” Se sei paranoico non sei mai solo. Dalla sospettosità al delirio paranoico” Alpes ed.2017; E.Muriana, L.Pettenò, T.Verbitz “I volti della depressione” 2006; E.Muriana,T.Verbitz “Psicopatologia della vita amorosa” 2010.